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Venti. Chilometri d’istanza

January 31, 2015 Paolo Manici

Venti. Chilometri d’istanza

Novellara, la musica elettronica. Il ragù e gli occhiali in bilico tra il naso e il vuoto.

Al tavolo undici quel giorno si è seduto un signore solo. Era da solo. Il tavolo undici è un tavolo da due, da tre, al massimo, se si è disposti a stare stretti. Invero quel giorno, al tavolo undici, vi si era seduto un signore silenzioso. Gli occhiali li portava sulla punta del naso.

A Novellara, a venti chilometri o poco più dalla Città e poco più in alto nella cartina, vi abita una signora anziana, anziana come la casa in cui abita, anch’essa a Novellara. La bassa reggiana. Terra di odori di campagna dei tempi che furono, smarriti nella nebbia e nei casolari sporadici e sbiaditi, di filari paralleli memori di antichi mestieri. Altri tempi, Altri Libertini.

Musica elettronica, battiti severi solleticano l’orecchio. Buio fuori, serata invernale. L’udito simpatizza e approva. Tieni stretta una birra in una mano, l’altra che gioca col tuo mento. Ora si sveglia il tuo piede destro che va a sbattere di sua iniziativa sul pavimento in una metrica armoniosa. Metronomo di un’atmosfera inedita. Ora gli odori di cucina espressa, divelta dal luogo in cui si conviene ricordarli, fanno a sberle con i colori tipici di un american bar. Stop. Straniamento. Stendhal.

Lavorare con lentezza. Il ragù è l’arte della pazienza. Del saper attendere. A domanda rispondi, a bollore aggiungi. Assaggia. Gira. Lentezza e perizia per una pietanza che tutto vuole e tutto rilascia. Bollore lento e prolungato. Bassa la fiamma che culla il grande accompagnatore della pasta ruvida, la pasta all’uovo. Fedele costante delle domeniche di qualsivoglia stagione dell’anno.

Accompagnare. Il basso elettrico lo sa bene. Sa quando e dove andare a parare in un momento delicato. Ci sono troppi sensi in gioco. Calmierare la potenza. Dosare tanta maestria. Il tuo piede sinistro intanto, quel piede d’appoggio di calcistica fama, attende anch’esso attonito il colmarsi delle proprie aspettative. Aspetta con ansia la prossima portata. Che essa sia un piatto o un pezzo musicale. Piede di appoggio, il piede giusto a parere di qualche ancestrale superstizioso, ancestrale come il segreto che aleggia in quella campagna pianeggiante, gravida di storia, ritaglio di terra e colture, troppo lontana da quella sera di inverno.

Bassa è la musica, sottofondo di quel pranzo di mezz’autunno. Al tavolo undici si sono sempre viste persone sole. Persone di passaggio. Il tavolo undici ha una storia di ausiliarietà, giammai di protagonismo. Invero, abbracciato dal dieci e dal dodici da ambo i lati, talvolta, accoglie sino a otto affamati, ma quel giorno, di metà autunno, più simile ad un’estate al crepuscolo, soltanto due erano i gomiti che poggiavano sull’abito a scacchi rossi e bianchi da osteria che lo ricopriva, soltanto uno l’affamato. Ricorda l’oste di quando gli toccò di cacciare in malo modo due giovani frettolosi che, entrati nel suo locale, si sedettero al tavolo, l’undici per l’appunto, rei di non aver neppure salutato il padrone di casa. Suscettibile e affezionato alle buone maniere, il nostro, si rivolse ai malcapitati per farli alzare, colpevoli di non aver osservato i rituali di ospitalità che spettano ad entrambe le parti.

Potrà mai l’anziana vedova della casa umida e sua coetanea vincere la distanza di quei venti chilometri che la separano dai giorni nostri, per poter, un giorno sedere, a quel tavolo?

La particolarità di quel mezzogiorno soleggiato che entrava di rapina dalle vetrate dell’osteria era una quiete malinconica. Le pagine di un libro, col dorso posato sulla tovaglia, incrociavano perpendicolari lo sguardo dell’avventore. La mano sinistra lo sfrega e lo aggiorna, quella destra impugna una forchetta. Non è chiaro di cosa stia facendo egli libagione, se della pietanza decentrata dal suo sguardo o se delle righe fitte di quel libro.

Profumi di cucina che escono prepotenti dagli amplificatori. Affettare un ortaggio, far saltare una padella. Sbattere una cucchiaia sul bordo di essa. Rumori. Musica? Musica! Non credeva il cuoco o musicista, che dir si voglia, un tale bagno di folla ad assistere alla sua performance. Così tanti piedi destri al suo concerto. I suoi audaci soci lo spalleggiano nell’impresa, imbraccianti strumenti elettrici dai manici più o meno lunghi. Strumenti complici che accompagnano sonorità campionate, relegate solitamente entro le mura di una cucina.

Chissà se siano soltanto venti i chilometri che separano tutto ciò dall’anziana rezdora. Ora governa il ragù che a sua volta governa le sue giornate. Il ragù in potenza borbotta, non curante degli eventi che lo sorpassano.

La spuma soffice dei bianchi montati va dolcemente accarezzata con fare ruffiano di chi, senza farglielo notare, aggiunge di volta in volta farina setacciata. Accarezza con perizia dal basso verso l’alto, con movimento cauto e sempre lo stesso, il composto. Pan di spagna.

Mangiare con lentezza è mangiare con consapevolezza.


MB



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